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venerdì 27 novembre 2015

Poesie in italiano



AGIM MATO

POESIE

Dal libro “Fuori dell’eclisse”

Tradotte dall’originale dalla  Prof.dr. Klara Kodra




 
MEA CULPA

Quando nuovamente  discesi  dopo trent’anni nella
    miniera abbandonata della poesia
e facevo  dei passi  esitanti nelle  gallerie lasciate a mezzo
cercando l’oro nascosto nelle grotte,
i miei arnesi di lavoro,
sparpagliati  senza la minima  cura in istanti d’ira
contro gli dei,
esitai improvvisamente e di volo
tentai salire in alto dove mi preparavo da tempo
  al grande cerimoniale  della morte.

Sarebbero iniziate forse di nuovo le sofferenze nelle
   solitarie notti
fino a che i fuochi dell’anima riducessero in stracci
Le camicie stirate
ed il prezioso gilè dello sposalizio?
Nuovamente avrei urlato di dolore
inghiottendo insaziato i motivi
finché non mi  seppellissero le paurose gallerie?

Incoraggiavo me stesso: “e chi  mai pensa più alle frottole
 poetiche?”
E mentre pensavo a fuggire
tornando donde ero venuto, mi circondò
all’improvviso uno stormo
d’ali di desiderii e di  sogni di un tempo
che si abbattevano su di me al pari di  pipistrelli
e cadevano svenuti ai miei piedi.

Come avevano fatto a vivere mai in quell’obliò spietato?

Li toccavo uno ad uno
ed essi tornavano in sé, urlando e riempiendo di una  luce
     minerale
tutto quel laboratorio della memoria,
tutto quell’opificio che mi chiusero a forza,
tutta quell’alchimia dell’anima
che  cominciò ad apparirmi
come un asteroide accecante. Vidi di nuovo chiaramente
l’impeto delle follìe di un tempo
di sbattere la testa  contro l’rraggiungibile
fino a che  la  lampada di  carbito di stelle
sulla mia  fronte
s’infrangesse,
colpendo  con  tutta la sua  forza
il denso magma  del tempo.

Ma quando sentii accendersi lì dintorno
i motori  delle metafore,
al diavolo, dissi, le  camicie stirate, l’opportunismo
e le  conversazioni eclettiche di  sera,
al diavolo
la  programmazione della vita,
gli orari fissi delle medicine e dei film.

Santiquaranta, 2011


FARO SOLITARIO  A  SUD

Sono solitario a sud, faro invecchiato sulla  roccia,
annerito e corroso dal turbinio delle  galattiche,
coperto di  piscia  stellare, imbrattato da  sterco lunare.

Solo e dimenticato dalle navi  che  hanno cambiato
itinerario
 da  gran  tempo.
Solo, con la  lampada  spenta
Sopra  l’abisso pauroso del mare,
sentendo solo dei singhiozzanti  segnali
lontani  di cui  ho  scordato il senso.
Privo di luce e cieco  mi trovo davanti  agli dei.

Migliore  destino  di me  aveva  Prometeo
Quando gli  inviavano  Hermes a cambiargli i chiodi
lì in alto
sulle rocce del Caucaso.

Almeno scambiava  due  parole.
S’informava  di  cosa  accadeva.

Ma qui dove  sono,  su questa roccia
sperduta fra le onde  infinite, non viene nessuno
come un tempo a portare l’acetilene,
a pulire la  lampada
ed a accendere di nuovo la fiamma della mia anima.

Sono solitario nel  sud,
cancellato dal  registro geografico  del  mare.

Santiquaranta, 2011

NOI, I SENZAVOCE


Censuravano il nostro linguaggio
e ci sbattevano in faccia le porte delle redazioni.

Facevano scritti festivi, poesie festive, una vita di festa
e calpestavano le nostre lingue tagliate,
i nostri libri tolti dalle librerie, le biblioteche
e li trasformavano di nuovo in posta cartacea.
Ma stranamente, quando suonò il gong delle libertà
I primi partiti liberali sono creato avendo la loro firma.

Santiquaranta, 1993


LA CENERE DEI DITIRAMBI
                                                         

La libertà s’era esiliata dalla Francia.
L’accompagnava  Hugo  in  incognito
col nome di un operaio tipografo
nel suo falso passaporto.

Quando si sedeva nelle notti di Bruxelles e creava “Le
   pene”
coloro che cantavano ditirambi al tiranno
che aveva usurpato la patria,
vedevano terrorizzati ardere i fogli nelle loro mani.
L’indomani si chiedevano esterrefatti:
quale fulmine a ciel sereno
era caduto mai davanti ai loro scrittoi?

Chiudevano le finestre, oscuravano le stanze
ed alla luce di una candela
ricominciavano i ditirambi per il  tiranno
e nuovamente  la cenere dei fogli come cenere di
                                                                  cadaveri
restava sulle loro mani.

Che  ne sapevano loro che  Hugo
scagliava tutti i fulmini dell’ira
che lampeggiavano in aria, diretti alla Francia ?

Limjon, 1979

LA BOTTIGLIA

A chi  mai  venne in mente  di compilare quel  documento
segreto per  sfogare  in quella  tenera età
la rabbia  delle umiliazioni?  Lo  firmammo a turno,
quello  status  di dolore: Mehmet Delvina,
un altro di  cognome  Delvina, Luan Mato  ed infine
io, il minore  di tutti. Nascosti
laggiù, fra le  fessure  delle  rocce dello Ionio,
giurammo  di non tradirci l’un  l’altro,
di  non tradire  i nostri  genitori che  soffrivano  una  pena
nella Rocca  di  Argirocastro, di  non tradire
Gli antichi  certificati di  proprietà della stirpe,
i pesanti  scaffali, i  quaderni ed  i diarii
con la  splendida calligrafia. Non tradiremmo
i  quadri classici  degli avi con le  severe  cornici.

Chiudemmo tutto nella  bottiglia, facendo  gocciare
sul  tappo di esso la cera  bollente  per  isolarla dall’acqua.
Fra le fessure carstiche  delle rocce, fra  gamberi
e pesciolini, gettammo nell’acqua il  nostro grande
segreto, sperando che l’onda lo portasse
in  altri paesi, in altri  tempi
per testimoniare del nostro destino.
E con il  passare  degli anni paura ci  condusse
spesso alle rocce
perché temevano  che il  mare  ci  denunciasse
portando  a riva  il nostro segreto!
Non so in quali oceani sbuffa ancora in mezzo alle onde
del fremito dell’ira nostra quel messaggio chiuso nella
bottiglia.
   Santiquaranta, 2011

LA PENNA  ED IL TARLO

Ogni volta  che mi sedevo a scrivere rodeva il mio  tavolo
 un  tarlo. Grr..... grr.....,
Lavorava all’interno  quel  minatore  strano,
facendo a gara  con il  graffiare della  mia  penna
sulla  carta. Lo  vedevo  trarre alla superficie
                      i fini  trucioli  dopo
ore  intere di lavoro e mi  confondeva pensieri, tempo del
 ritmo, fantasie.
Leggevo  a voce  alta  ciò  che  scrivevo.
Il  tarlo  si  fermava ed allora mi  atterriva
il suo  silenzio. Cos’era esso,
il sismografo dei miei sentimenti ?
La mia  coscienza  o il  mio censore?
Tornavo a scrivere e risentivo il suo grr...grr...l’intera
 notte,  ogni volta
con  a fianco l’autocensura, il dubbio, l’incertezza.

Ce ne volle del tempo perché comprendessi la ragione per
 cui  scavava dei  tunnel entro di me 
quel  minatore  infaticabile di quegli anni giovanili,
ci volle del tempo per convincermi
che dovevo frenare  l’impeto  dei motivi e delle  verità
per salvare quei dati motivi, quelle verità
che ora  contiene  questo  libro.

Quei trucioli fini, gialli, quali polverine di farmacia erano
    la  dose
che  prendevo regolarmente per calmare la febbre dell’
ispirazione.
Santiquaranta, 2011

LA TROTA

Ci portarono a visitare l’enorme riserva dell’allevamento
delle trote in un’ora di lezione:
“Conosciamo il  nostro  luogo di nascita”.

Stavo dietro gli altri
vedendo  me stesso nel luccichio distratto degli esseri
che  sbattevano sulle strette pareti di  calcestruzzo.
Quante di esse cadevano stordite, tentando di
                      passare il confine determinato dal sorte,
quante  di esse mi  guardavano  con gli occhi arrossati
                                              entro l’acqua
come  dietro invisibili inferriate.
Stavo  dietro per non udire  la voce  dello specialista
                                              che  si vantava
della scienza della creazione  di queste colonie obbedienti
e sognavo la libera trota dei fiumi montani che nuota 
contro la  corrente
delle impetuose cascate ironizzando da lontano questi
miseri  esseri  chiusi in  centinaia di vasche.
dove  attendono il cibo  fabbricato
secondo ricette e razioni calcolate, finché non raggiungano 
              peso e lunghezza adatti al  mercato.

Mi stupivo  di quelli che  pigliavano  appunti  intorno  alla
sagoma
di uno zootecnico,  senza  immaginare  che noi  stessi 
eravamo esseri  cresciuti  nelle  assurde  vasche di una
  dottrina.

Limjon.  1979-2011

AMORE MORTO



Ogni volta che ci accompagnavamo l’uno all’ altra,
ogni volta che ci  nascondevamo  nei  lontani  seni  del
    mare,
le rocce subacque della  lotta di  classe
ci rovesciavano la barca dell’amore.

Accanto a te le  voci. Rifiuti  gettati dalle  navi.
Barche gettate a terra e bucate alla  schiena
come  testimonianza delle notti  tempestose.

Tante volte il fato deviò il nostro navigare,
cì gettò a terra come queste barche a remi mutilate                                        
                 accanto a te  sulla sabbia bagnata!
Non so  quanto tempo, poi
Errai per le vie della tristezza
dove gli  edifici delle notti si chinavano su di me
come un gruppo di ciechi irrigiditi.

Attraverso gli alberi storpiati dal dolore
mi appariva  una nebbia  sanguinosa.

Pareva che tutti i tronchi degli alberi fossero  riempiti  dai
    cartelloni
 degli amori morti.
Il bosco dei nervi
guaiva,
sotto i venti  della  rabbia.

Avete mai visto il sole oscurato dalla luna
e la luce agitarsi sull’asfalto  come agnello ammazzato?
Quell’agnello ero io che mi agitavo
cercando quella luce
che alcuni uffici segreti mi chiudevano
in dossiers oscuri.

Come trovare la mia luce e vedere il tempo fuori dell’
eclisse?

Limjon, 1975-2011

IL SANGUE DEI FIORI



I carri  armati versano il sangue dei fiori.

Il sangue della campanula con la sua linguetta staccata,
delle margherite che hanno rizzato appena il capo
  timidamente,
della sensitiva (che si senti toccata crudelmente),
delle rose, del tulipano, della mimosa
che cadono preda  del ferreo  rombare delle  catene.

Ed io sento il gemito dell’erba,
lo stormo degli uccelli migratori che vengono
                     da lontano e migrano nuovamente atterriti,
l’onda  che si arrochisce parlando,
gli zeppelin delle nubi che nuotano indifferenti
                        sulle nostre teste,
il crepuscolo seduto sulle panchine al pari di 
un cieco con i centesimi degli astri,
il “Kateri di Rada",  rapito  nella  base  marittima, 
                                                                    li vicino.


Improvvisamente scompaiono i passanti,
scompaiono le ragazze che con sussurri e segreti 
riempivano l’aria.
Sento le lunghe canne dei carri armati colpire le porte
delle banche
Come ariete carrozato davanti alle porte delle città  
medioevali.

Migliaia di volti tristi dietro le finestre sbattono le palpebre
come diafragmi di apparecchi fotografici.

Come  per ironia, la catena d’oro della  luce laggiù
chiude l’abito sul petto del giorno. Ma chi mai
chiuderà il dolore delle  madri  che prorompe come  un
 urlo acuto del Canale d’Otranto?
Che tragedia si prepara nell’azzurro accecante dello Ionio?

I carri  armati  versano il  sangue dei  fiori.

Stesa a terra la  simetria  dei  gigli,
l’algebra  dei  giardini,
la  geometria  dei  marciapiedi,
steso  a terra lo  Stato.

Santiquaranta 1997


ANIMA VUOTATO


Una falsa voce, un canto finto, falso mi tormenta.
Come  strapparmi la pelle delle parole vane ?

Cammino  come in  spiagge desolate  lunari ....

Non mi rallegra il giorno, neppure il  mare
né i discorsi  accademici sull’arte.

Anima  vuota.

Alla fine dei giorni
resta un fondiglio di caffé
e di  crepuscoli amari.
Voglio raccogliere la mia  ombra, ripiegarla
per  mandarla  in un altro  tempo,
e voglio  che  fugga  questa  strada
che  sparisce  sotto  i miei  piedi
come  serpe  spaventata.

Alla porta di pietra dell’inverno,  coperto di foglie  morte
                        si agita convulso un uccello, un  cuore.

1988


LIBERTà


Guardavamo la via  solo per te
se mai  apparissi tu a noi da  lontano,
Così come  ai  naufraghi oltre il mare
l’amato  suol  della salvezza appare.

Non ci promise  Mosè indubbiamente
una  via calma e priva di tormenti
Ma noi c’incamminammo e attraversammo
tutti insieme il deserto dell’oblio,
Passammo attraverso i labirinti
ci sforzammo di superare abissi
e la  via  mai non abbandonammo,
Mai  non abbandonammo la speranza
che  un giorno, trascorsi  quarant’anni,
Invecchiati ed incanutiti
avremmo infine  raggiunto Te.

Invecchiati ed incanutiti
saremmo giunti noi davanti a Te.
con labbra  sigillate e storditi
perché non riuscivamo più a capire
se eri Tu o  forse  i miraggi
che  apparivano a noi per la  stanchezza
Su un cumulo di anni perduti
ci  fermammo senza  più avanzare
perché improvvisamente era finito
ogni  senso del nostro sacrificio
Perché ormai  le sofferenze  nostre
eran  valori che  avevamo  creato,
erano  il legno  stesso della croce
entro di noi alfine santificato.


Santiquaranta  1993

MURATO

Mi son sforzato per decine d’anni
sulle  rive  del fiume dell’oblìo,
a costruire della Poesia il Ponte
per  comunicare con la gente anch’io.

E solo  giorno e notte sollevavo
delle parole le pietre  pesanti
fin dalle antiche  fondamenta
agli archi  che  reggono i ponti.

Il rombo  dei cadenti motti
prendeva  il  fiume ad assordare
Che  mistero  mai dentro la notte
quelli faceva inabissare?

Quale mistero il mio lavoro
colpiva  improvvisamente ?
E  avevo perduto  il sonno
ad un  alchimista somigliante.

Burocrati e  delatori
portavano piani, lesti:
“attento che se fai errori
ti crolla il ponte  in  testa”.

Venivano pure  controllori
l’inventario per  fare,
similitudini e paragoni
gelidi per  misurare.

E  ogni  critico  furbastro
Guastava il mio orientamento,
perché mai  non trovassi il nord
e il  filo  del mio argomento.

Ma venne un antico  bardo.
Di  miti  un sacco  aveva in schiena;
“Fammi  vedere i tuoi  arnesi,
cazzuola, martello e figure.

Devi  tener segreto  il senso
dei versi tuoi,  le tue  parole
che le spie  i pesanti sassi
crollar non faccian  sotto le onde.

Perché il Ponte della Poesia  non  crolli
lì sopra il fiume  inferocito
tu devi murare  te stesso
nel muro  costruito.

Non obliare  del  Ponte  di Arta
chi  furono i  costruttori.
Non furon  gente  commune,
ma  famosi muratori.

Perché il lavor loro reggesse
l’anima in esso doveva entrare
perciò ci volle un sacrificio,
una  vittima da  immolare.

Così murai  allora me stesso
nel muro delle parole
per  legare così le pietre
e il mio messaggio  insieme a loro.

Limjon, 1974 – 2011


CHI  MAI TEMEVI, DIO ?

Dio, perché non stesti accanto a noi, in quegli inverni di
  grandi odii?
Dio, perche non restasti accecato vedendo inquirenti  e
poliziotti perquisirci la  casa,
calpestando gli  antichi libri della  stirpe,
“Fiori di primavera”, “La meria  delle Zane”[1]
Gli occhiali lungimiranti di mio padre, e mettere a soqquadro
il  laboratorio con il camino solare delle fotografie[2]
il  verde erbario di mia  sorella?

Come non bruciasti nelle loro mani quei  pezzi di carta
dove inventarizzavano gli oggetti rari, le  collezioni di orologi
svizzeri
che misuravano da secoli  il tempo,
quando  inventarizzavano lenzuola, coperte ed  arazzi dei
    muri
fino ai cucchiai e alle forchette di cucina?
Come facevi ad  udirli quando  urlavano
                                                “Sporchi borghesi!”
senza che ti si rompesse il timpano degli orecchi ?

Come  non ti  trovasti accanto a noi, in quegli inverni di 
 grandi odii,
Quando sbatterono mio padre nella rocca prigione di 
Argirocastro,
Quando facevano appassire la bellezza di
mia  madre  nella  fattoria dell’allevamento dei  porci?

Dio, Dio, come nonti gelarono le ossa da
quel  vento  matto della lotta  di classe
Quando sbatterono la mia famiglia in una baracca di legno
Che somigliava a un correntino copritetto fra inondazioni e
fango?

Altra gente  usciva  ai  balconi delle  nostre  case di ieri
e scuoteva  su di  noi  le insanguinate  lenzuola degli anni
e gettavano dalla finestra  gli  avanzi delle cene
e lanciavano le  bottiglie  dell’ ebbra ira

Mentre  noi,  Dio,  non trovavamo punto
una  tessera del pane  per  saziarci!
Non lo so, Dio, se  hai  bisogno  di  riempirti
 lo stomaco  come  noi  mortali,
se hai  provato le vertigini,
l’oscuramento della vista  per la  fame
se  hai  cercato  con  furia i fichi  selvatici di Lëkurs,
pera selvatica  di  Heremetz,
e staccato  con  sanguinanti  unghie i moluschi
attaccati  alle  rocce  selvagge in  riva  al  mare?

Avevano  paura  gli amici  di ieri
Di  salutarci,  cambiavano strada,
avevano  paura le speranze di  bussare alla  finestra
ed il sole  alzava le spalle tramontando.
Ma tu, Dio, di  chi  avevi  mai  paura
Che  non stavi accanto al  nostro  destino,
Di  chi  avevi mai  paura ?

Nemmeno un  segno  da te, Dio
Nessun  segno quando  cercavamo in cielo
Al di    dei fulmini
Il tuo  profilo,
quei fulmini che  aspettavamo che cadessero
li dove avrebero dovuto
e tardavano a cadere.
Dimmi un pò, Dio,
Per amor di Dio, Dio,
perché non stesti accanto a noi, in 
quegli inverni di grandi odii??

Santiquaranta, 1991


SCHlafari

Sei mai stato a Schlafari ? Sei mai stato in  quell’isola
lontana dell’Utopia?

Tutto l’anno a Schlafari errano per le  vie
maialini arrosto con un  coltello e una  forchetta infitti nella
coscia
ed un piatto d’oro appeso alla coda.
Nel cielo volano anitre, oche, merli, pernici e fagiani arrosto.
Là non ci sono pietre e rocce
perché il loro posto è occupato
da forme di caciocavallo, di  bianco formaggio a fette.
Dalle  due  parti della strada
si elevano  siepi con muri di  frittelle e dolci
Solo devi  guardarti dallo sciroppo per  non scivolare.

Le  sorgenti di vino gorgogliano e ti rallegrano.
Le fontane gettano in aria  whisky puro.
Gli  amatori ci si  gettano
nudi e coloro  che non sanno nuotare
alzano il capo dalla liquida superficie
                        ed urlano: “Antipasti!”
per non affogare.

I gelati sono come Babbi Natale di neve.
Al posto delle foglie gli alberi fanno banconote
e puoi raccoglierle scuotendoli.
Molte restano a marcire per terra
perché nessuno si china per pigrizia.

Per giungere a Schlafari
devi sfogliare dei grandi libroni e interrogare
                        il cieco scrivano accanto
che ti indichi la strada,
devi ascoltare il muto
ed incamminarti con lo zoppo.

Santiquaranta, 2001


ODE DELL’INFANZIA SUL MARE


Siamo ancora i genii vagabondi delle rive,
di sasso dinanzi alle magie dello Ionio,
assordati dalle grida in coro dei gabbiani
sulle  nostre teste,
dal chiasso dei cinguettii dei passeri,
piccoli vagabondi, perduti a fondo nei segreti
                             dei golfi solitarii,
là dove i colombi selvatici fanno il loro nido
nelle fessure delle rocce calcaree.

Onde schiumose
lavano e rilavano con un’accecante pulizia
le cave di  marmo delle  rive
e la ghiaia mugghia come una bianca folla d’uova
deposte dalle  creature marine -
una massa di luminosi brillanti.

La luce fosforescente dell’orizzonte
di tanto in tanto annuncia le tempeste
e il maroso rode il fondo del mare, traendo a riva
con le alghe anfore di navi naufragate,
statue propiziatrici di fortuna di sfortunati marinai.

Solo di mattina, quando i marosi indietreggiano,
esce il  vecchio  metereologo
con le  mani  che  scacciano i gabbiani
e sale sulla  scala
di legno e va  ai suoi apparecchi. Scuote             
                                       la  canuta  testa e
                                    i suoi lunghi capelli
Somigliano a un preciso anemometro.

Andiamo anche  noi ai  rifiuti
                        vomitati dalla  notte e i marosi,
là dove  il mare  ci parla con  mille voci,
dove le  antiche mura escono dall’acqua
come dalla profondità dei secoli.

Il  profumo  del  muschio marino si spande
quando calpestiamo le  alghe della riva del  mare
gli strati di conchiglie che  scricchiolano
                                    sotto i nostri piedi nudi
Davanti a  noi – deserti acquei infiniti,
dune  lente  di onde  dal passo gigante
Come  mobili specchi.

Parliamo tutto il giorno con il mare
e i gabbiani del porto.
Gli  ami ed i fili
restano sott’acqua e noi  c’immergiamo
per  sfilare il passato delle  navi affondate.

Quando abbiamo fame ci nutriamo di ricci marini
dei gamberi che acchiappiamo tra le rocce.
scordando le  mamme  che  ci cercano  inquiete.

Non  ci avviciniamo a casa finché la luce  s’infrange  come un 
          cristallo
e spinge  innanzi le greggi  dei crepuscoli,
mentre  una luna  ioniana  esce in camicia
inghiottita da un fuoco azzurro
attraverso la luce  minerale degli astri.

I grigi olivi delle pendice pascolano come cavalli
ed il faro ad acetilene in mezzo al golfo
ci ricorda i lumi accesi davanti alle icone.

In  silenzio, tardi,  nel  buio  della nostra  stanza
ci  corichiamo presso le nostre madri
fingendo di non sentire
Il  rimprovero  del  loro respiro,
finché alle rive del sonno
rumoreggia il mare, svegliandoci.

Limjon, 1974 - 2011


L’ANFORA


Un’ anfora  antica  mi tese
l’Ionio un dì con  le  mani  schiumose
e mi  disse: “Tieni, è per te,
bevi il tempo e sii  lucido  come  me”.

Se  dovessero  tremarti  le gambe,
se ti si  oscurasse la mente,
non potresti  tu  reggere i secoli
come  reggo le  navi io  sempre”.

Dalla  cantina del profondo
mare trasse l’anfora con l’alghe
su cui  pesava  della  storia  il  fondo
da ogni  mito spoglia, da ogni  fiaba.

E mi  disse: “nell’acque  poco  profonde
dove  vivono  sol  meschini  pesci,
né le  vele  spiegarsi  possono,
neppure  prepararsi  le  tempeste.

Ché la  poesia  inspiegabilmente
da  schiuma e luce  non  viene  alla vita
come  ci  dicon  sempre le leggende,
come  dicon che  nacque  Afrodite.

Dico  che  alla poesia io medesimo
primo ho tagliato il  cordone  ombelicale,
sulle mie  rive  i poeti
urlarono forte  per il  male”.

E l’anfora mi tese  nuovamente
con le  mani schiumose: “Ecco  che 
se riesci  a bere il tempo
sarai  lucido  come  me”.


AFRODITE



Di dove venisti in quella lontana estate della nostra gioventù
       come una dea marina?
Cos’era  quel  brivido
che  suscitavi
e che moveva le eliche dei nostri giovani cuori?

Due di noi compagni si  azzuffarono per
la spilla da te  perduta.
Cercavamo di non toccare
l’impronta del tuo corpo sulla sabbia.

Di chi saresti stata?
Il cuore di chi sarebbe giunto là
dove i sogni
ospitano i gabbiani?

Quanti altri avrebbero camminato tristi la sera udendo
il tuo  gioioso riso ?

Il mare della domenica
con le  bianche  rose
delle onde.
Tu corresti a cogliere  rose e obliasti di uscire.

Tanti giorni e tante notti senza di te
come  se rubato ci  avessero d’improvviso
la statua di Afrodite.

Che ne fu delle  impronte dei tuoi  passi
che  c’indicavano  i segreti delle lontane  vie ?

Il mormorìo del  mare
era forse la tua voce  che usciva  stanca dalle profondità
e  diceva:  “sono qui,
                     sono  qui
                     sono  qui?”

E vedemmo i pescatori trasportare il tuo  corpo
avvolto  in una  vela
come  trasportassero il  trinchetto  rotto delle nostre
   speranze.

E solo allora credemmo che non eri di etere,
che non eri di schiuma
o di luce,
ma  creatura di carne
che si  doveva  piangere.

Allora il dolore per te  come pane amaro
condividemmo
e smettemmo di essere rivali.

Ma di dove venisti improvvisamente in quella lontana estate
     della nostra  gioventù?



LA PIOVRA


Esco a riempire i polmoni del brivido dei mattini
marini.

Il sole che esce fa brillare il mare di
                        alcune luci fosforescenti.
Non posso mirarlo a lungo.
Mi avvicino alle rocce dove lo sguardo acuto dei giovani
  segue la piovra
che si allontana in fretta
schizzando l’acqua d’inchiostro per far
                        perdere le  sue  tracce.

I giovani s’immergono ed inizia la rischiosa lotta
Vedo i otto tentacoli del mostro che incollano
                        le ventose nelle loro spalle
e si avvolgono al loro collo come  corde.

Vedo il mare  che  schiuma  per la lotta,
la  caduta, lo sbattere  delle braccia
e le  mani come ganci che staccano
                                    dal corpo la piovra
come staccando le radici dalla crosta della terra.

Poi la  sbattono incessantemente su  una roccia
                                    finché non spira.


SANTIQUARANTA


Ho messo alla prova il mio amore per te
e sono sconfito dalla tua mancanza.

Come  sopportare la  nostalgìa
che mi rodeva  qual  acido ?
Solo l’arancio del  tuo  amore
illuminava  e riscaldava  per me
le stanze dei lontani alberghi.

E gli alberghi,
Rompendo le corde delle strade
Si trasformavano di  notte in  navi
per portarmi alla semiluna  del tuo  corpo,
avvolto  nel  bianco velo delle notti ioniane,
con l’iodio ed il profumo delle alghe.

Sentivo  i  gabbiani chiamarmi,
Sentivo  i segreti  della  lontana  voragine marittima
invitarmi ad  avventure.

Isole di pirati, Colombi  di  Indie  non
            scoperte della mia  infanzia!

Cimitero delle lontananze,  nascosto nelle
                        grotte sottomarine
Come una bottiglia  suggellata  che  contiene
la  pergamena dei viaggi che non feci!

Nelle notti solitarie occupavo il posto delle  statue
sui  muri antichi della  riva  del  mare, stordito
dal  rotolare  dei grossi tronchii  delle onde
ed il chiasso degli elementi caricava tutto
                                    il mio essere.

Amai con tutta l’anima il tuo mare
profondo  e trasparente
come  un cielo liquido,
il tuo porto in cui  oscillano ancora i trinchetti
dei miei  sogni infantili.

Non erano per me le stanze dei lontani alberghi.



IL  GABBIANO


La  casa ce l’avevo accanto al mare
e le  onde  urlavan  con fragore
e veniva  un gabbiano a  tutte le ore
sfinito  alla finestra  a riposare.

Scuoteva le ali e le gocce  lucenti
cadevano pian piano  sul  mio volto
e mi  accorgevo allora  tristemente
che  la  fuliggine l’aveva  avvolto.

Mi pareva  che si  giustificasse
col suo  becco mentre si  pettinava
che  nell’azzurro del Mediterraneo
di guerra  fumasser le navi.

Sulle piume  la mia  mano  passavo
e gli  parlavo  dolcemente
“stai  nel mio  mare” lo  pregavo,
bevi  l’azzurro  splendente.


IL FUNERALE DEL  CAPITANO



Sulle spalle  dei  marinai
oscilla la  bara  del  vecchio  capitano
come  una  barca  che voga  verso il suo ultimo porto.

Una barca  che  voga
al di sopra  della vita,
al di  sopra dell’amore,
al di  sopra degli anni.

Nave  della vita,
mentre passi  accanto a me vedo 
la tua  stiva
piena e ricolma della ricchezza che  lasciò parenti,
verghe d’oro  puro dell’abnegazione,
diamanti di fedeltà,
pietre preziose della saggezza..

Le tempeste abbandonarono i nidi  edificati
                                    sulle tue  vele.

Ed  ora?
Chi  farà  girare  le  onde  davanti  a te
per sentire le grida degli eroi,
la gioia delle lotte
e lo  scontro  infinito degli elementi?
Davanti a te il porto – sepolcro  cupo.

Con quale  stento  sorpassa le  acque amare
                                    del  dolore,
quanto è arduo passare  gli stretti dei  singhiozzi
e calare  nelle  profondità dell’oblio
le  tue  due  ancore,
quella  del  giorno di  nascita,
quella del  giorno della morte.

Addio, capitano !
Quando  saliremo sulle navi
faremo  fischiare le sirene per te,
faremo  suonare  le  tempeste,
gli anni che ti  chiamano
ed allora si alzeranno le tue ancore
e  biancheggeranno le tue  vele
negli  orizzonti  marittimi.


RIEMPIO UN PUGNO DI CONCHIGLIE


Riempio un  pugno  di conchiglie.

Che n’è delle  piccole vite dentro di loro?
Sento solo il loro vuoto tintinnìo agitandole nella mano.

Coralli freddi,
senza valore,
gettati dall’onda in  continuo sulla riva.

Come Amleto sto a guardare
questi piccoli cranii,
gallerie abbandonate della lotta per l’esistenza.

E per  quanto lisce,
per quanto  fine,
senza quello scambio di materie che le             
                              collegava a  intorno
mi ricordano ora le sculture astratte
che l’onda  del tempo getta nell’oblío.


EPISODIO

Santiquaranta come una  luna  spezzata
è confitta nella  terra.
Nella riva  della luna
la schiuma delle onde
e le gocce di luce cadono come lacrime.

 Fra le onde mi fuggì l’infanzia,
 per le  vie della luna, i cortili,
 con gli occhi accecati dall’azzurro,
 con il  ventre vuoto
 appresso alle onde ed ai giochi.

Mi accadeva di toccare  bombe rosse
Insieme ai rossi fiori.
O strano  mazzo, unione
di  bombe, gigli, bocciuoli.

Mi separai piangendo da un  compagno
perché  il mazzo, quando  lo odorava
gli fece una magìa,
il mazzo rosso urlò così forte
che il mare di fronte tremò tutto.

LA PARTENZA DEGLI ALBANESI  D”ITALIA


Sulle rocce e le galee di legno
 ricoperte di  muschio
il  mare  sbriciolava le  sere insanguinate e gli  urli dei
       gabbiani.

Per due  giorni e due  notti di  fila
non smisero di  suonare  le campane,
per due giorni e due  notti di fila
esse tremarono sotto l’inquieto cielo dell’Albania.

Ma sotto gli olivi  incurvati dal dolore
c’erano loro stessi,
appoggiati agli elmi, con i menti non rasati,
loro,
avvolti  nel vapore  delle notti belle.

Venivano altri cavalieri,
altri scendevano dai cavalli
e  mettevano giù le culle  coperte
dai  mantelli abbruciacchiati  nelle guerre.

Si  riempirono le galee.
Gli Albanesi
dispiegarono le bianche vele  dai trinchetti.

Venti  prodi  si chinarono  sulle grosse corde
e  levarono le ancore
dalle  rocce subacquee della loro terra.


Oh, quanto pesanti,
quanto pesanti erano quelle ancore come  miste  alle radici
                                                                 di quella notte dorata,
come  se si fossero confuse ai nitriti dei cavalli
che  fuggivano  tristi sulla riva  della separazione!

Ed i venti
spinsero  le galee ad occidente.
Fiaccole straniere  incendiavano le loro case, i loro olivi.
Altre  rive li aspettavano,
altri paesi.

Ma si sarebbero levate nelle danze le ragazze, venuta
primavera.

Ad ogni primavera,
“O bella Morea”
avrebbero cantato le ragazze
e avrebbero gettato come  gabbiani i loro fazzoletti sulle
    acque.
A  BUTRINTO


Passeggiamo su  rovine  di  civiltà,
 coperte dai boschetti di allori
come  dalla loro gloria.

Le colonne  con i capitelli che si elevano dalla  terra
somigliano ai trinchetti delle navi affondate.

Antichissima la terra. Qui  a scavare
ti pare  di toccare la mano di una  statua
che si tende a te per aiuto.

Il Pozzo delle Spose  sbatte la  nostra  voce  nell’
      antichità.
Saliamo alcune  scale
che non sanno dove portarci.

Le porte del tempo  sono chiuse per loro.
O ci  vogliono altre scale per giungere a bussare in
qualche luogo.

Sulle mura del Ninfeo le api suonano le campanule dei
fiori
Ci affrettiamo al teatro come  ritardatari allo spettacolo.

Le  anfore nel cortile del museo si riempiono di sole.
Quando se ne vanno i  visitatori escono le statue  a
sgranchirsi le gambe
dal lungo tempo che  fanno le  guardie d’onore alla storia.


IL  PITTORE

Vieni, mi disse il mio amico  pittore,   
che aspetti?
non senti le voci dei bimbi raccolti intorno alla primavera
      appena venuta?
Non senti
la sua  eco silenziosa,
i suoi azzurri tuoni, che aspetti?

Aggiustò il cavalletto,
aprì gli acquerelli e dal pennello scivolò la luce del sole;
piovvero sulla  carta gli alberi,
le rocce marine, le  navi
e più in là la bianca  città con tutte le sue finestre.

Una  mossa, due
ed ecco
il  gabbiano batté le ali.
Frr, frr. E la  primavera  zampettava  con le sue  gambe
      verdi,
chiamando i boccioli
e loro le rispondevano,
si aprivano frusciando
appena li toccava il pittore con             il suo pennello.

Il mio compagno fremeva per la  febbre.
Non senti, diceva, come è divenuto rauco l’aprile
chiamandoci.
Il suo pennello tremava.
Forse per ciò erano così sconvolti  gli alberi,
così sconvolte le rocce e le navi.
Forse per ciò la città apparve come un miraggio sulle acque,
un miraggio sottilissimo
che  una  semplice  brezza
avrebbe fatto scomparire dai nostri occhi.

Poi il mio compagno termìnò.
Stemmo così sentendo alitare quel pomeriggio d’aprile,
applaudendo in  silenzio alla primavera.

I BAMBINI


Tutti  questi  giornì  si sentì sulle  nostre teste il fruscìo
                                            del traffico aereo degli uccelli
                                   che portavano sulle loro ali l’aprile.
Più tardi vennero gli aerei irroratori sui campi.
Gli spazi oscillavano come lenzuola invisibili.

Quando scendevano sull’aeroporto agrario,
una  nube di  bimbi appariva
accanto a questi aerei ordinarii di lavoro,
odoranti di olio e di erbicidi.

Toccavano con  mano il caldo metallo            
 che  palpitava
e nei  loro teneri  petti si svegliava Icaro,
si svegliava  l’infinito.
Poi scacciavano i bimbi. Si accendevano i motori.
Un potente  vortice  d’aria  apriva loro le camicie.

Ma  non  erano camicie. Erano ali che sbattevano
come se d’improvviso uno stormo di cicogne  si preparasse
a volare.

E la notte, nel sonno, il loro spirito  era tormentato dai  cieli.

Pilotavano in un  oceano d’aria, di sogno.
Ascoltavano il rombo dei pianeti,
quasi toccavano la luna e erano spiaciuti che non avesse
nubi e pioggia sue
che  non avesse boschi suoi,
città e campi divise in quadrati
come  alveari del lavoro umano.

Il mattino li  trovava sulla terra,  nei  loro bianchi villaggi,
      circondati
                                                        dal verde chiasso del  grano.


LA LUNA


La Luna  non è casa  per i poeti.

Non possiamo entrare qui.
Per quanto sembri dorata,
per quanto sembri rosata dai raggi di sole al tramonto,
non possiamo entrare qui.

Come potrebbero indossare scafandri i nostri sogni?
Essi sono così leggeri anche  sulla terra,
così fragili,
come farebbero a zampettare sulla Luna?


CREPUSCOLO


Stavo solo con l’Universo.

Ascoltavo la  brezza degli astri che sbocciavano come
       margherite,
ascoltavo il  mare  giù sotto,
il respiro delle sue grotte  come russsio di balene.

Una lucciola
sfuggì ai  fuochi del tramonto ed errò
sopra di me con una piccola luna sotto il ventre.

Gli aranci gettavano  sulle spalle il golfino azzurro della
sera
e andavano all’appuntamento con gli olivi.  

Sulla città  si stendeva una  nebbia di luce,
un  evaporare bianco di sogni e comignoli.

Laggiù lontano si  sentiva il rombo di un fiume
che versava il tempo nel mare.

Stavo solo con l’Universo.


INVIDIA

Sono colto dall’invidia  quando penso  che una sola radice
d’olivo
può  superare la mia  utilità,

quando un  fiore con le  sue  luci e le sue linee
supera le mie  poesie,

quando  un’ape ritorna dal pascolo carica di nettare
ed io  chiedo conto a me stesso alla fine d’ogni giorno,

quando un astro segna esattamente la  sua via
ed a me occorre molta fatica per trovarla.

Ogni volta che  penso a tutto ciò
cerco  di  avere entro di me
                                un  olivo,
                                un  fiore,
                                un’ape
                                e una stella.


[1] Opere  di Naim Frashëri  e Giorgio Fishta. Le “Zane” sono  ninfe albanesi  dei monti (Nota della trad.)
[2] Attraverso il  camino di  casa  mio padre  raccoglieva la luce del sole  per  sviluppare le fotografie  nel  suo  laboratorio, in  mancanza dell’energia elettrica (Nota dell’autore).