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lunedì 8 ottobre 2018

Un elegante poeta civile: AGIM MATO


                                                                           Cosimo Rodia


Un elegante poeta civile: AGIM MATO
in Fuori dall' eclisse

Fuori dall'eclisse è una silloge poetica di Agim Mato; dopo il silenzio impostogli dal regime comunista albanese, dopo le privazioni fisiche e materiali subite, dopo una iniziale sfiducia nella letteratura, ecco che emerge dall’abisso della coscienza del poeta di Saranda questa raccolta tutta innervata nella sua biografia.
Nella raccolta sono affrontati diversi temi: dalla solitudine per un futuro caino («non viene nessuno/come un tempo a portare l’acitilene», per cui rimane con la «lampada spenta»); agli aneliti di libertà consegnati in bottiglia; dal regime illiberale che cambia i connotati anche all’amore (in “Afrodite”  il poeta scrive: «E vedemmo i pescatori trasportare il tuo corpo/avvolto in una vela/come trasportassero il trinchetto rotto/delle nostre speranze»); alla libertà raggiunta che sembra, dopo tanto deserto, un miraggio («Invecchiati ed incanutiti/saremmo giunti noi davanti a te/con labbra sigillate e storditi/perché non riuscivamo più a capire/ se eri Tu o forse i miraggi/che apparivano a noi per stanchezza/su un cumulo di anni perduti»); al domandare a Dio dove si fosse nascosto quando la violenza del regime, tra le tante aberrazioni, «faceva appassire la bellezza di mia madre nella fattoria dell’allevamento di porci».
Non mancano quadri in cui Agim ricorda: i figli d’Albania fuggire verso l’Italia dopo la caduta del comunismo; la trasformazione urbanistica di Saranda, nel cui cambiamento si cancellano le vecchie vie, che a stento permangono nella memoria; il richiamo alle leggende albanesi (spicca quella del “Drago dell’occhio azzurro”).
Così, quando il regime credeva di aver soffocato la voce poetica, in realtà l’aveva solo ibernata perché sarebbe riemersa con tutta la sua forza quando i tempi sarebbero stati maturi per fare i conti anche con la storia; il poeta di Saranda, infatti, raccoglie i suoi arnesi di lavoro «sparpagliati senza la minima cura in istanti d’ira contro gli dei» e torna a cantare, vincendo la ritrosia dettata da «queste ossa calcificate dagli anni, dall’attesa e dai borbottii dei censori d’un tempo».
Una poesia impastata inevitabilmente con le passioni inibite e col passato dittatoriale. Il poeta albanese non piega la testa, non “canta ditirambi” per ingraziarsi il tiranno, la sua è una voce, che pur ridotta temporaneamente al silenzio, ritorna ad essere sonora non appena si apre una nuova era. Evidentemente i regimi sono così insipienti da non capire che possono costringere a marciare, ad allinearsi, a sparare, ma non a chiudere il cuore e la capacità umana di riflettere sulla realtà.
Ritornata la libertà, Agim si ributta nella vita e presenta con la sua commozione, con i suoi sogni violati, con le sue attese… quelle di un intero popolo che si è visto profanare le sue forme più elementari di vita.
In Agim c’è il desiderio di girar pagina ma senza dimenticare, senza che tanta violenza sia obliata e lo fa senza alzare l’indice, con garbo, con eleganza: le liriche di Agim sono un consuntivo di chi si porta con sé sogni e amarezze da cui le nuove generazioni possono trarre non pochi auspici.
La testimonianza di Agim sia nella sua versione letteraria sia in quella umana e biografica è un invito forte a proteggere l’uomo dalla sofferenza con ogni mezzo, e la letteratura essere strumento non secondario, una forza operante nella società per produrre una cultura liberatrice. Agim non è Sartre che teorizzava l’engagement dell’intellettuale, ma il poeta albanese gli corre a fianco nella misura in cui esprime un dolore attraverso il quale l’uomo può riscattare un periodo buio, può guardare negli occhi la tragedia per superarla: un modo formidabile, insomma, di fare i conti col passato e chiuderlo definitivamente.
Nella denuncia delle miserie personali vi è l’emblema di un popolo offeso, di quel dolore assorbito negli anni da tutti in egual misura; il suo canto impastato di esperienze autobiografiche non può non essere lo specchio di tutto il popolo albanese.
Quella di Agim infine è una poesia allegorica, dal costante correlativo oggettivo, dagli accostamenti eccezionali (In “Anima vuota” si legge: «Anima vuota./Alla fine dei giorni/resta un fondaglio di caffè/e di crepuscoli amari»; o ancora in “Prima visione”: «I venti come migliaia di violini squarciati dalla mia ira cinguettano negli spazi»).
Possiamo dire che l’immagine diventa la depositaria dell’idea; ovvero, dall’immagine si ingenera l’idea, il sentimento, l’emozione, il patimento, la gioia desiderata.
Dunque, è una poesia ricca, che col registro ordinario Agim Mato crea immagini luminose, concrete, contingenti, storiche.

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