AGIM
MATO
POESIE
Dal libro “Fuori dell’eclisse”
Tradotte
dall’originale dalla Prof.dr. Klara
Kodra
MEA CULPA
Quando
nuovamente discesi dopo trent’anni nella
miniera abbandonata della poesia
e
facevo dei passi esitanti nelle gallerie lasciate a mezzo
cercando
l’oro nascosto nelle grotte,
i
miei arnesi di lavoro,
sparpagliati senza la minima cura in istanti d’ira
contro
gli dei,
esitai
improvvisamente e di volo
tentai
salire in alto dove mi preparavo da tempo
al grande cerimoniale della morte.
Sarebbero
iniziate forse di nuovo le sofferenze nelle
solitarie notti
fino
a che i fuochi dell’anima riducessero in stracci
Le
camicie stirate
ed
il prezioso gilè dello sposalizio?
Nuovamente
avrei urlato di dolore
inghiottendo
insaziato i motivi
finché
non mi seppellissero le paurose
gallerie?
Incoraggiavo
me stesso: “e chi mai pensa più alle
frottole
poetiche?”
E
mentre pensavo a fuggire
tornando
donde ero venuto, mi circondò
all’improvviso
uno stormo
d’ali
di desiderii e di sogni di un tempo
che
si abbattevano su di me al pari di
pipistrelli
e
cadevano svenuti ai miei piedi.
Come
avevano fatto a vivere mai in quell’obliò spietato?
Li
toccavo uno ad uno
ed
essi tornavano in sé, urlando e riempiendo di una luce
minerale
tutto
quel laboratorio della memoria,
tutto
quell’opificio che mi chiusero a forza,
tutta
quell’alchimia dell’anima
che cominciò ad apparirmi
come
un asteroide accecante. Vidi di nuovo chiaramente
l’impeto
delle follìe di un tempo
di
sbattere la testa contro l’rraggiungibile
fino
a che la
lampada di carbito di stelle
sulla
mia fronte
s’infrangesse,
colpendo con
tutta la sua forza
il
denso magma del tempo.
Ma
quando sentii accendersi lì dintorno
i
motori delle metafore,
al
diavolo, dissi, le camicie stirate,
l’opportunismo
e
le conversazioni eclettiche di sera,
al
diavolo
la programmazione della vita,
gli
orari fissi delle medicine e dei film.
Santiquaranta,
2011
FARO SOLITARIO A SUD
Sono
solitario a sud, faro invecchiato sulla
roccia,
annerito
e corroso dal turbinio delle galattiche,
coperto
di piscia stellare, imbrattato da sterco lunare.
Solo
e dimenticato dalle navi che hanno cambiato
itinerario
da
gran tempo.
Solo,
con la lampada spenta
Sopra l’abisso pauroso del mare,
sentendo
solo dei singhiozzanti segnali
lontani di cui
ho scordato il senso.
Privo
di luce e cieco mi trovo davanti agli dei.
Migliore destino
di me aveva Prometeo
Quando
gli inviavano Hermes a cambiargli i chiodi
lì in alto
sulle
rocce del Caucaso.
Almeno
scambiava due parole.
S’informava di
cosa accadeva.
Ma
qui dove sono, su questa roccia
sperduta
fra le onde infinite, non viene nessuno
come
un tempo a portare l’acetilene,
a
pulire la lampada
ed
a accendere di nuovo la fiamma della mia anima.
Sono
solitario nel sud,
cancellato
dal registro geografico del
mare.
Santiquaranta,
2011
NOI, I SENZAVOCE
Censuravano
il nostro linguaggio
e
ci sbattevano in faccia le porte delle redazioni.
Facevano
scritti festivi, poesie festive, una vita di festa
e
calpestavano le nostre lingue tagliate,
i
nostri libri tolti dalle librerie, le biblioteche
e
li trasformavano di nuovo in posta cartacea.
Ma
stranamente, quando suonò il gong delle libertà
I
primi partiti liberali sono creato avendo la loro firma.
Santiquaranta,
1993
LA CENERE DEI DITIRAMBI
La
libertà s’era esiliata dalla Francia.
L’accompagnava Hugo
in incognito
col
nome di un operaio tipografo
nel
suo falso passaporto.
Quando
si sedeva nelle notti di Bruxelles e creava “Le
pene”
coloro
che cantavano ditirambi al tiranno
che
aveva usurpato la patria,
vedevano
terrorizzati ardere i fogli nelle loro mani.
L’indomani
si chiedevano esterrefatti:
quale
fulmine a ciel sereno
era
caduto mai davanti ai loro scrittoi?
Chiudevano
le finestre, oscuravano le stanze
ed
alla luce di una candela
ricominciavano
i ditirambi per il tiranno
e
nuovamente la cenere dei fogli come
cenere di
cadaveri
cadaveri
restava
sulle loro mani.
Che ne sapevano loro che Hugo
scagliava
tutti i fulmini dell’ira
che
lampeggiavano in aria, diretti alla Francia ?
Limjon,
1979
LA BOTTIGLIA
A
chi mai
venne in mente di compilare
quel documento
segreto
per sfogare in quella
tenera età
la
rabbia delle umiliazioni? Lo
firmammo a turno,
quello status
di dolore: Mehmet Delvina,
un
altro di cognome Delvina, Luan Mato ed infine
io,
il minore di tutti. Nascosti
laggiù,
fra le fessure delle
rocce dello Ionio,
giurammo di non tradirci l’un l’altro,
di non tradire
i nostri genitori che soffrivano
una pena
nella
Rocca di
Argirocastro, di non tradire
Gli
antichi certificati di proprietà della stirpe,
i
pesanti scaffali, i quaderni ed
i diarii
con
la splendida calligrafia. Non tradiremmo
i quadri classici degli avi con le severe
cornici.
Chiudemmo
tutto nella bottiglia, facendo gocciare
sul tappo di esso la cera bollente
per isolarla dall’acqua.
Fra
le fessure carstiche delle rocce,
fra gamberi
e
pesciolini, gettammo nell’acqua il
nostro grande
segreto,
sperando che l’onda lo portasse
in altri paesi, in altri tempi
per
testimoniare del nostro destino.
E
con il passare degli anni paura ci condusse
spesso
alle rocce
perché
temevano che il mare
ci denunciasse
portando a riva
il nostro segreto!
Non
so in quali oceani sbuffa ancora in mezzo alle onde
del
fremito dell’ira nostra quel messaggio chiuso nella
bottiglia.
Santiquaranta,
2011
LA
PENNA ED IL TARLO
Ogni volta che mi sedevo a scrivere rodeva il mio tavolo
un
tarlo. Grr..... grr.....,
Lavorava all’interno quel
minatore strano,
facendo a gara
con il graffiare della mia
penna
sulla
carta. Lo vedevo trarre alla superficie
i
fini trucioli dopo
ore intere
di lavoro e mi confondeva pensieri,
tempo del
ritmo, fantasie.
Leggevo a
voce alta ciò
che scrivevo.
Il
tarlo si fermava ed allora mi atterriva
il suo
silenzio. Cos’era esso,
il sismografo dei miei sentimenti ?
La mia
coscienza o il mio censore?
Tornavo a scrivere e risentivo il suo grr...grr...l’intera
notte, ogni volta
con a fianco
l’autocensura, il dubbio, l’incertezza.
Ce ne volle del tempo perché comprendessi la
ragione per
cui
scavava dei tunnel entro di
me
quel minatore infaticabile di quegli anni giovanili,
ci
volle del tempo per convincermi
che dovevo frenare
l’impeto dei motivi e delle verità
per salvare quei dati motivi, quelle verità
che ora
contiene questo libro.
Quei trucioli fini, gialli, quali polverine di
farmacia erano
la dose
che
prendevo regolarmente per calmare la febbre dell’
ispirazione.
Santiquaranta, 2011
LA TROTA
Ci portarono a visitare l’enorme riserva
dell’allevamento
delle trote in un’ora di lezione:
“Conosciamo il
nostro luogo di nascita”.
Stavo dietro gli altri
vedendo me
stesso nel luccichio distratto degli esseri
che
sbattevano sulle strette pareti di
calcestruzzo.
Quante di esse cadevano stordite, tentando di
passare
il confine determinato dal sorte,
quante di
esse mi guardavano con gli occhi arrossati
entro
l’acqua
come dietro
invisibili inferriate.
Stavo
dietro per non udire la voce dello specialista
che si vantava
della scienza della creazione di queste colonie obbedienti
e
sognavo la libera trota dei fiumi montani che nuota
contro la corrente
delle
impetuose cascate ironizzando da lontano questi
miseri esseri
chiusi in centinaia di vasche.
dove
attendono il cibo fabbricato
secondo
ricette e razioni calcolate, finché non raggiungano
peso e lunghezza adatti al mercato.
peso e lunghezza adatti al mercato.
Mi
stupivo di quelli che pigliavano
appunti intorno alla
sagoma
di
uno zootecnico, senza immaginare
che noi stessi
eravamo esseri cresciuti nelle assurde vasche di una
eravamo esseri cresciuti nelle assurde vasche di una
dottrina.
Limjon.
1979-2011
AMORE MORTO
Ogni
volta che ci accompagnavamo l’uno all’ altra,
ogni
volta che ci nascondevamo nei
lontani seni del
mare,
le rocce subacque della lotta di
classe
ci rovesciavano la barca dell’amore.
Accanto a te le
voci. Rifiuti gettati dalle navi.
Barche gettate a terra e bucate alla schiena
come
testimonianza delle notti
tempestose.
Tante volte il fato deviò il nostro navigare,
cì gettò a terra come queste barche a remi mutilate
accanto a te sulla sabbia bagnata!
accanto a te sulla sabbia bagnata!
Non so
quanto tempo, poi
Errai per le vie della tristezza
dove gli
edifici delle notti si chinavano su di me
come un gruppo di ciechi irrigiditi.
Attraverso gli alberi storpiati dal dolore
mi appariva
una nebbia sanguinosa.
Pareva
che tutti i tronchi degli alberi fossero
riempiti dai
cartelloni
degli amori morti.
Il bosco dei nervi
guaiva,
sotto i venti
della rabbia.
Avete mai visto il sole oscurato dalla luna
e la luce agitarsi sull’asfalto come agnello ammazzato?
Quell’agnello ero io che mi agitavo
cercando quella luce
che alcuni uffici segreti mi chiudevano
in dossiers oscuri.
Come
trovare la mia luce e vedere il tempo fuori dell’
eclisse?
Limjon, 1975-2011
IL SANGUE DEI FIORI
I carri armati versano il sangue dei fiori.
Il sangue della campanula con la sua linguetta staccata,
delle margherite che hanno rizzato appena il capo
timidamente,
della sensitiva (che si senti toccata crudelmente),
delle rose, del tulipano, della mimosa
che cadono preda
del ferreo rombare delle catene.
Ed io sento il gemito dell’erba,
lo stormo degli uccelli migratori che vengono
da
lontano e migrano nuovamente atterriti,
l’onda che si arrochisce parlando,
gli zeppelin delle nubi che
nuotano indifferenti
sulle
nostre teste,
il crepuscolo seduto sulle
panchine al pari di
un cieco con i centesimi degli
astri,
il “Kateri di Rada", rapito
nella base marittima,
li vicino.
li vicino.
Improvvisamente scompaiono i
passanti,
scompaiono le ragazze che con sussurri e segreti
riempivano l’aria.
Sento le lunghe canne dei carri
armati colpire le porte
delle
banche
Come ariete carrozato davanti
alle porte delle città
medioevali.
Migliaia di volti tristi dietro
le finestre sbattono le palpebre
come
diafragmi di apparecchi fotografici.
Come per ironia, la catena d’oro della luce laggiù
chiude l’abito sul petto del
giorno. Ma chi mai
chiuderà il dolore delle
madri che prorompe come un
urlo acuto del Canale d’Otranto?
Che tragedia si prepara
nell’azzurro accecante dello Ionio?
I carri armati
versano il sangue dei fiori.
Stesa a terra la simetria
dei gigli,
l’algebra dei
giardini,
la geometria
dei marciapiedi,
steso a terra lo
Stato.
Santiquaranta 1997
ANIMA VUOTATO
Una falsa voce, un canto finto,
falso mi tormenta.
Come strapparmi la pelle delle parole vane ?
Cammino come in
spiagge desolate lunari ....
Non mi rallegra il giorno,
neppure il mare
né i discorsi accademici sull’arte.
Anima vuota.
Alla fine dei giorni
resta un fondiglio
di caffé
e di crepuscoli amari.
Voglio raccogliere la mia ombra, ripiegarla
per mandarla
in un altro tempo,
e voglio che
fugga questa strada
che sparisce
sotto i miei piedi
come serpe
spaventata.
Alla porta di pietra dell’inverno, coperto di foglie morte
si
agita convulso un uccello, un cuore.
1988
LIBERTà
Guardavamo la via solo per te
se mai apparissi
tu a noi da lontano,
Così come ai naufraghi oltre il mare
l’amato suol della salvezza appare.
Non ci promise
Mosè indubbiamente
una via calma e
priva di tormenti
Ma noi c’incamminammo e attraversammo
tutti insieme il deserto dell’oblio,
Passammo attraverso i labirinti
ci sforzammo di superare abissi
e la via mai non abbandonammo,
Mai non
abbandonammo la speranza
che un giorno,
trascorsi quarant’anni,
Invecchiati ed incanutiti
avremmo infine
raggiunto Te.
Invecchiati ed incanutiti
saremmo giunti noi davanti a Te.
con labbra
sigillate e storditi
perché non riuscivamo più a capire
se eri Tu o
forse i miraggi
che apparivano a
noi per la stanchezza
Su un cumulo di anni perduti
ci fermammo
senza più avanzare
perché improvvisamente era finito
ogni senso del
nostro sacrificio
Perché ormai le
sofferenze nostre
eran valori
che avevamo creato,
erano il
legno stesso della croce
entro di noi alfine santificato.
Santiquaranta 1993
MURATO
Mi son sforzato per decine d’anni
sulle rive del fiume dell’oblìo,
a costruire della Poesia il Ponte
per comunicare con
la gente anch’io.
E solo giorno e
notte sollevavo
delle parole le pietre
pesanti
fin dalle antiche
fondamenta
agli archi
che reggono i ponti.
Il rombo dei
cadenti motti
prendeva il fiume ad assordare
Che mistero mai dentro la notte
quelli faceva inabissare?
Quale mistero il mio lavoro
colpiva
improvvisamente ?
E avevo
perduto il sonno
ad un alchimista
somigliante.
Burocrati e
delatori
portavano piani, lesti:
“attento che se fai errori
ti crolla il ponte
in testa”.
Venivano pure
controllori
l’inventario per
fare,
similitudini e paragoni
gelidi per
misurare.
E ogni critico
furbastro
Guastava il mio orientamento,
perché mai non
trovassi il nord
e il filo del mio argomento.
Ma venne un antico
bardo.
Di miti un sacco
aveva in schiena;
“Fammi vedere i
tuoi arnesi,
cazzuola, martello e figure.
Devi tener
segreto il senso
dei versi tuoi, le
tue parole
che le spie i
pesanti sassi
crollar non faccian
sotto le onde.
Perché il Ponte della Poesia non
crolli
lì sopra il fiume
inferocito
tu devi murare te
stesso
nel muro
costruito.
Non obliare
del Ponte di Arta
chi furono i costruttori.
Non furon
gente commune,
ma famosi
muratori.
Perché il lavor loro reggesse
l’anima in esso doveva entrare
perciò ci volle un sacrificio,
una vittima
da immolare.
Così murai allora
me stesso
nel muro delle parole
per legare così le
pietre
e il mio messaggio
insieme a loro.
Limjon, 1974 – 2011
CHI MAI TEMEVI, DIO ?
Dio, perché non stesti accanto a noi, in quegli inverni
di
grandi odii?
Dio, perche non restasti accecato vedendo inquirenti e
poliziotti perquisirci
la casa,
calpestando gli
antichi libri della stirpe,
“Fiori di primavera”, “La meria delle Zane”[1]
Gli occhiali lungimiranti di mio padre, e mettere a
soqquadro
il laboratorio con
il camino solare delle fotografie[2]
il verde erbario
di mia sorella?
Come non bruciasti nelle loro mani quei pezzi di carta
dove inventarizzavano gli oggetti rari, le collezioni di orologi
svizzeri
che misuravano da secoli
il tempo,
quando
inventarizzavano lenzuola, coperte ed
arazzi dei
muri
fino ai cucchiai e alle forchette di cucina?
Come facevi ad
udirli quando urlavano
“Sporchi
borghesi!”
senza che ti si rompesse il timpano degli orecchi ?
Come non ti trovasti accanto a noi, in quegli inverni
di
grandi odii,
Quando sbatterono mio padre nella rocca prigione di
Argirocastro,
Quando facevano appassire la bellezza di
mia madre nella
fattoria dell’allevamento dei porci?
Dio, Dio, come nonti gelarono le ossa da
quel vento matto della lotta di classe
Quando sbatterono la mia famiglia in una baracca di legno
Che somigliava a un correntino copritetto fra inondazioni
e
fango?
Altra gente
usciva ai balconi delle
nostre case di ieri
e scuoteva su
di noi
le insanguinate lenzuola degli
anni
e gettavano dalla finestra gli
avanzi delle cene
e lanciavano le
bottiglie dell’ ebbra ira
Mentre noi, Dio,
non trovavamo punto
una tessera del
pane per
saziarci!
Non lo so, Dio, se
hai bisogno di
riempirti
lo stomaco
come noi mortali,
se hai provato le
vertigini,
l’oscuramento della vista
per la fame
se hai cercato
con furia i fichi selvatici di Lëkurs,
pera selvatica
di Heremetz,
e staccato con sanguinanti
unghie i moluschi
attaccati
alle rocce selvagge in
riva al mare?
Avevano paura gli amici
di ieri
Di salutarci, cambiavano strada,
avevano paura le
speranze di bussare alla finestra
ed il sole alzava
le spalle tramontando.
Ma tu, Dio, di
chi avevi mai
paura
Che non stavi
accanto al nostro destino,
Di chi avevi mai
paura ?
Nemmeno un
segno da te, Dio
Nessun segno
quando cercavamo in cielo
Al di là dei fulmini
Il tuo profilo,
quei fulmini che
aspettavamo che cadessero
li dove avrebero dovuto
e tardavano a cadere.
Dimmi un pò, Dio,
Per amor di Dio, Dio,
perché non stesti accanto a noi, in
quegli inverni di grandi odii??
Santiquaranta, 1991
SCHlafari
Sei mai stato a Schlafari ? Sei mai stato in quell’isola
lontana dell’Utopia?
Tutto l’anno a Schlafari errano per le vie
maialini arrosto con un
coltello e una forchetta infitti
nella
coscia
ed un piatto d’oro appeso alla coda.
Nel cielo volano anitre, oche, merli, pernici e fagiani
arrosto.
Là non ci sono pietre e rocce
perché il loro posto è occupato
da forme di caciocavallo, di bianco formaggio a fette.
Dalle due parti della strada
si elevano siepi
con muri di frittelle e dolci
Solo devi
guardarti dallo sciroppo per non
scivolare.
Le sorgenti di
vino gorgogliano e ti rallegrano.
Le fontane gettano in aria whisky puro.
Gli amatori ci si
gettano
nudi e coloro che
non sanno nuotare
alzano il capo dalla liquida superficie
ed
urlano: “Antipasti!”
per non affogare.
I gelati sono come Babbi Natale di neve.
Al posto delle foglie gli alberi fanno banconote
e puoi raccoglierle scuotendoli.
Molte restano a marcire per terra
perché nessuno si china per pigrizia.
Per giungere a Schlafari
devi sfogliare dei grandi libroni e interrogare
il
cieco scrivano accanto
che ti indichi la strada,
devi ascoltare il muto
ed incamminarti con lo zoppo.
Santiquaranta, 2001
ODE DELL’INFANZIA SUL
MARE
Siamo ancora i genii vagabondi delle rive,
di sasso dinanzi alle magie dello Ionio,
assordati dalle grida in coro dei gabbiani
sulle nostre teste,
dal chiasso dei cinguettii dei passeri,
piccoli vagabondi, perduti a fondo nei segreti
dei golfi
solitarii,
là dove i colombi selvatici fanno il loro nido
nelle fessure delle rocce calcaree.
Onde schiumose
lavano e rilavano con un’accecante pulizia
le cave di marmo
delle rive
e la ghiaia mugghia come una bianca folla d’uova
deposte dalle
creature marine -
una massa di luminosi brillanti.
La luce fosforescente dell’orizzonte
di tanto in tanto annuncia le tempeste
e il maroso rode il fondo del mare, traendo a riva
con le alghe anfore di navi naufragate,
statue propiziatrici di fortuna di sfortunati marinai.
Solo di mattina, quando i marosi indietreggiano,
esce il
vecchio metereologo
con le mani che
scacciano i gabbiani
e sale sulla scala
di legno e va ai
suoi apparecchi. Scuote
la canuta testa e
la canuta testa e
i
suoi lunghi capelli
Somigliano a un preciso anemometro.
Andiamo anche noi
ai rifiuti
vomitati
dalla notte e i marosi,
là dove il
mare ci parla con mille voci,
dove le antiche
mura escono dall’acqua
come dalla profondità dei secoli.
Il profumo del
muschio marino si spande
quando calpestiamo le
alghe della riva del mare
gli strati di conchiglie che scricchiolano
sotto
i nostri piedi nudi
Davanti a noi –
deserti acquei infiniti,
dune lente di onde
dal passo gigante
Come mobili
specchi.
Parliamo tutto il giorno con il mare
e i gabbiani del porto.
Gli ami ed i fili
restano sott’acqua e noi
c’immergiamo
per sfilare il
passato delle navi affondate.
Quando abbiamo fame ci nutriamo di ricci marini
dei gamberi che acchiappiamo tra le rocce.
scordando le
mamme che ci cercano
inquiete.
Non ci avviciniamo
a casa finché la luce s’infrange come un
cristallo
e spinge innanzi
le greggi dei crepuscoli,
mentre una
luna ioniana esce in camicia
inghiottita da un fuoco azzurro
attraverso la luce
minerale degli astri.
I grigi olivi delle pendice pascolano come cavalli
ed il faro ad acetilene in mezzo al golfo
ci ricorda i lumi accesi davanti alle icone.
In silenzio,
tardi, nel buio
della nostra stanza
ci corichiamo
presso le nostre madri
fingendo di non sentire
Il rimprovero del
loro respiro,
finché alle rive del sonno
rumoreggia il mare, svegliandoci.
Limjon, 1974 - 2011
L’ANFORA
Un’ anfora
antica mi tese
l’Ionio un dì con
le mani schiumose
e mi disse:
“Tieni, è per te,
bevi il tempo e sii
lucido come me”.
Se dovessero tremarti
le gambe,
se ti si oscurasse
la mente,
non potresti
tu reggere i secoli
come reggo le navi io
sempre”.
Dalla cantina del
profondo
mare trasse l’anfora con l’alghe
su cui pesava della
storia il fondo
da ogni mito
spoglia, da ogni fiaba.
E mi disse:
“nell’acque poco profonde
dove vivono sol
meschini pesci,
né le vele spiegarsi
possono,
neppure
prepararsi le tempeste.
Ché la poesia inspiegabilmente
da schiuma e
luce non
viene alla vita
come ci dicon
sempre le leggende,
come dicon
che nacque Afrodite.
Dico che alla poesia io medesimo
primo ho tagliato il
cordone ombelicale,
sulle mie
rive i poeti
urlarono forte per
il male”.
E l’anfora mi tese
nuovamente
con le mani
schiumose: “Ecco che
se riesci a bere
il tempo
sarai lucido come
me”.
AFRODITE
Di dove venisti in quella lontana estate della nostra
gioventù
come una dea marina?
Cos’era quel brivido
che suscitavi
e che moveva le eliche dei nostri giovani cuori?
Due di noi compagni si
azzuffarono per
la spilla da te
perduta.
Cercavamo di non toccare
l’impronta del tuo corpo sulla sabbia.
Di chi saresti stata?
Il cuore di chi sarebbe giunto là
dove i sogni
ospitano i gabbiani?
Quanti altri avrebbero camminato tristi la sera udendo
il tuo gioioso riso ?
Il mare della domenica
con le
bianche rose
delle onde.
Tu corresti a cogliere
rose e obliasti di uscire.
Tanti giorni e tante notti senza di te
come se rubato
ci avessero d’improvviso
la statua di Afrodite.
Che ne fu delle
impronte dei tuoi passi
che
c’indicavano i segreti delle
lontane vie ?
Il mormorìo del
mare
era forse la tua voce
che usciva stanca dalle
profondità
e diceva: “sono qui,
sono
qui
sono
qui?”
E vedemmo i pescatori trasportare il tuo corpo
avvolto in
una vela
come
trasportassero il trinchetto rotto delle nostre
speranze.
E solo allora credemmo che non eri di etere,
che non eri di schiuma
o di luce,
ma creatura di
carne
che si doveva piangere.
Allora il dolore per te
come pane amaro
condividemmo
e smettemmo di essere rivali.
Ma di dove venisti improvvisamente in quella lontana
estate
della nostra
gioventù?
LA PIOVRA
Esco a riempire i polmoni del brivido dei mattini
marini.
Il sole che esce fa brillare il mare di
alcune
luci fosforescenti.
Non posso mirarlo a lungo.
Mi avvicino alle rocce dove lo sguardo acuto dei giovani
segue la piovra
che si allontana in fretta
schizzando l’acqua d’inchiostro per far
perdere le sue
tracce.
I giovani s’immergono ed inizia la rischiosa lotta
Vedo i otto tentacoli del mostro che incollano
le
ventose nelle loro spalle
e si avvolgono al loro collo come corde.
Vedo il mare
che schiuma per la lotta,
la caduta, lo sbattere delle braccia
e le mani come
ganci che staccano
dal
corpo la piovra
come staccando le radici dalla crosta della terra.
Poi la sbattono
incessantemente su una roccia
finché
non spira.
SANTIQUARANTA
Ho messo alla prova il mio amore per te
e sono sconfito dalla tua mancanza.
Come sopportare
la nostalgìa
che mi rodeva
qual acido ?
Solo l’arancio del
tuo amore
illuminava e
riscaldava per me
le stanze dei lontani alberghi.
E gli alberghi,
Rompendo le corde delle strade
Si trasformavano di
notte in navi
per portarmi alla semiluna del tuo
corpo,
avvolto nel bianco velo delle notti ioniane,
con l’iodio ed il profumo delle alghe.
Sentivo i gabbiani chiamarmi,
Sentivo i
segreti della lontana
voragine marittima
invitarmi ad
avventure.
Isole di pirati, Colombi
di Indie non
scoperte
della mia infanzia!
Cimitero delle lontananze, nascosto nelle
grotte
sottomarine
Come una bottiglia
suggellata che contiene
la pergamena dei
viaggi che non feci!
Nelle notti solitarie occupavo il posto delle statue
sui muri antichi
della riva del
mare, stordito
dal rotolare dei grossi tronchii delle onde
ed il chiasso degli elementi caricava tutto
il
mio essere.
Amai con tutta l’anima il tuo mare
profondo e
trasparente
come un cielo
liquido,
il tuo porto in cui
oscillano ancora i trinchetti
dei miei sogni infantili.
Non erano per me le stanze dei lontani alberghi.
IL GABBIANO
La casa ce l’avevo
accanto al mare
e le onde urlavan
con fragore
e veniva un
gabbiano a tutte le ore
sfinito alla
finestra a riposare.
Scuoteva le ali e le gocce lucenti
cadevano pian piano
sul mio volto
e mi accorgevo
allora tristemente
che la fuliggine l’aveva avvolto.
Mi pareva che
si giustificasse
col suo becco
mentre si pettinava
che nell’azzurro
del Mediterraneo
di guerra fumasser
le navi.
Sulle piume la
mia mano
passavo
e gli parlavo dolcemente
“stai nel mio mare” lo
pregavo,
bevi
l’azzurro splendente.
IL FUNERALE DEL CAPITANO
Sulle spalle
dei marinai
oscilla la
bara del vecchio
capitano
come una barca che voga
verso il suo ultimo porto.
Una barca che voga
al di sopra della
vita,
al di sopra
dell’amore,
al di sopra degli
anni.
Nave della vita,
mentre passi
accanto a me vedo
la tua stiva
piena e ricolma della ricchezza che lasciò parenti,
verghe d’oro puro
dell’abnegazione,
diamanti di fedeltà,
pietre preziose della saggezza..
Le tempeste abbandonarono i nidi edificati
sulle
tue vele.
Ed ora?
Chi farà girare
le onde davanti
a te
per sentire le grida degli eroi,
la gioia delle lotte
e lo scontro infinito degli elementi?
Davanti a te il porto – sepolcro cupo.
Con quale
stento sorpassa le acque amare
del dolore,
quanto è arduo passare
gli stretti dei singhiozzi
e calare
nelle profondità dell’oblio
le tue due
ancore,
quella del giorno di
nascita,
quella del giorno
della morte.
Addio, capitano !
Quando saliremo
sulle navi
faremo fischiare
le sirene per te,
faremo
suonare le tempeste,
gli anni che ti
chiamano
ed allora si alzeranno le tue ancore
e biancheggeranno
le tue vele
negli orizzonti
marittimi.
RIEMPIO UN PUGNO DI CONCHIGLIE
Riempio
un pugno
di conchiglie.
Che
n’è delle piccole vite dentro di loro?
Sento
solo il loro vuoto tintinnìo agitandole nella mano.
Coralli
freddi,
senza
valore,
gettati
dall’onda in continuo sulla riva.
Come
Amleto sto a guardare
questi
piccoli cranii,
gallerie
abbandonate della lotta per l’esistenza.
E
per quanto lisce,
per
quanto fine,
senza
quello scambio di materie che le
collegava a intorno
collegava a intorno
mi
ricordano ora le sculture astratte
che
l’onda del tempo getta nell’oblío.
EPISODIO
Santiquaranta come una
luna spezzata
è confitta nella
terra.
Nella riva della
luna
la schiuma delle onde
e le gocce di luce cadono come lacrime.
Fra le onde mi
fuggì l’infanzia,
per le vie della luna, i cortili,
con gli occhi
accecati dall’azzurro,
con il ventre vuoto
appresso alle onde
ed ai giochi.
Mi accadeva di toccare
bombe rosse
Insieme ai rossi fiori.
O strano mazzo,
unione
di bombe, gigli,
bocciuoli.
Mi separai piangendo da un compagno
perché il mazzo,
quando lo odorava
gli fece una magìa,
il mazzo rosso urlò così forte
che il mare di fronte tremò tutto.
LA PARTENZA DEGLI
ALBANESI D”ITALIA
Sulle rocce e le galee di legno
ricoperte di muschio
il mare sbriciolava le sere insanguinate e gli urli dei
gabbiani.
Per due giorni e
due notti di fila
non smisero di
suonare le campane,
per due giorni e due
notti di fila
esse tremarono sotto l’inquieto cielo dell’Albania.
Ma sotto gli olivi
incurvati dal dolore
c’erano loro stessi,
appoggiati agli elmi, con i menti non rasati,
loro,
avvolti nel
vapore delle notti belle.
Venivano altri cavalieri,
altri scendevano dai cavalli
e mettevano giù le
culle coperte
dai mantelli
abbruciacchiati nelle guerre.
Si riempirono le
galee.
Gli Albanesi
dispiegarono le bianche vele dai trinchetti.
Venti prodi si chinarono
sulle grosse corde
e levarono le
ancore
dalle rocce
subacquee della loro terra.
Oh, quanto pesanti,
quanto pesanti erano quelle ancore come miste
alle radici
di quella notte dorata,
come se si fossero
confuse ai nitriti dei cavalli
che fuggivano tristi sulla riva della separazione!
Ed i venti
spinsero le galee
ad occidente.
Fiaccole straniere
incendiavano le loro case, i loro olivi.
Altre rive li
aspettavano,
altri paesi.
Ma si sarebbero levate nelle danze le ragazze, venuta
primavera.
Ad ogni primavera,
“O bella Morea”
avrebbero cantato le ragazze
e avrebbero gettato come
gabbiani i loro fazzoletti sulle
acque.
A BUTRINTO
Passeggiamo su
rovine di civiltà,
coperte dai
boschetti di allori
come dalla
loro gloria.
Le colonne
con i capitelli che si elevano dalla
terra
somigliano ai trinchetti delle navi affondate.
Antichissima la terra. Qui a scavare
ti pare di
toccare la mano di una statua
che si tende a te per aiuto.
Il Pozzo delle Spose sbatte la
nostra voce nell’
antichità.
Saliamo alcune
scale
che non sanno dove portarci.
Le porte del tempo
sono chiuse per loro.
O ci
vogliono altre scale per giungere a bussare in
qualche luogo.
Sulle mura del Ninfeo le api suonano le campanule
dei
fiori
Ci affrettiamo al teatro come ritardatari allo spettacolo.
Le anfore
nel cortile del museo si riempiono di sole.
Quando se ne vanno i visitatori escono le statue a
sgranchirsi le gambe
dal lungo tempo che fanno le
guardie d’onore alla storia.
IL PITTORE
Vieni, mi disse il mio amico pittore,
che aspetti?
non senti le voci dei bimbi raccolti intorno alla
primavera
appena venuta?
Non senti
la sua eco
silenziosa,
i suoi azzurri tuoni, che aspetti?
Aggiustò il cavalletto,
aprì gli acquerelli e dal pennello scivolò la luce
del sole;
piovvero sulla
carta gli alberi,
le rocce marine, le navi
e più in là la bianca città con tutte le sue finestre.
Una mossa,
due
ed ecco
il gabbiano
batté le ali.
Frr, frr. E la
primavera zampettava con le sue
gambe
verdi,
chiamando i boccioli
e loro le rispondevano,
si aprivano frusciando
appena li toccava il pittore con il suo pennello.
Il mio compagno fremeva per la febbre.
Non senti, diceva, come è divenuto rauco l’aprile
chiamandoci.
Il suo pennello tremava.
Forse per ciò erano così sconvolti gli alberi,
così sconvolte le rocce e le navi.
Forse per ciò la città apparve come un miraggio
sulle acque,
un miraggio sottilissimo
che
una semplice brezza
avrebbe fatto scomparire dai nostri occhi.
Poi il mio compagno termìnò.
Stemmo così sentendo alitare quel pomeriggio d’aprile,
applaudendo in
silenzio alla primavera.
I BAMBINI
Tutti
questi giornì si sentì sulle nostre teste il fruscìo
del traffico aereo degli uccelli
che portavano sulle loro ali
l’aprile.
Più tardi vennero gli aerei irroratori sui campi.
Gli spazi oscillavano come lenzuola invisibili.
Quando scendevano sull’aeroporto agrario,
una nube
di bimbi appariva
accanto a questi aerei ordinarii di lavoro,
odoranti di olio e di erbicidi.
Toccavano con
mano il caldo metallo
che palpitava
che palpitava
e nei loro
teneri petti si svegliava Icaro,
si svegliava
l’infinito.
Poi scacciavano i bimbi. Si accendevano i motori.
Un potente
vortice d’aria apriva loro le camicie.
Ma non erano camicie. Erano ali che sbattevano
come se d’improvviso uno stormo di cicogne si preparasse
a volare.
E la notte, nel sonno, il loro spirito era tormentato dai cieli.
Pilotavano in un
oceano d’aria, di sogno.
Ascoltavano il rombo dei pianeti,
quasi toccavano la luna e erano spiaciuti che non
avesse
nubi e pioggia sue
che non
avesse boschi suoi,
città e campi divise in quadrati
come
alveari del lavoro umano.
Il mattino li
trovava sulla terra, nei loro bianchi villaggi,
circondati
dal verde chiasso del grano.
LA LUNA
La Luna non
è casa per i poeti.
Non possiamo entrare qui.
Per quanto sembri dorata,
per quanto sembri rosata dai raggi di sole al
tramonto,
non possiamo entrare qui.
Come potrebbero indossare scafandri i nostri
sogni?
Essi sono così leggeri anche sulla terra,
così fragili,
come farebbero a zampettare sulla Luna?
CREPUSCOLO
Stavo solo con l’Universo.
Ascoltavo la
brezza degli astri che sbocciavano come
margherite,
ascoltavo il
mare giù sotto,
il respiro delle sue grotte come russsio di balene.
Una lucciola
sfuggì ai
fuochi del tramonto ed errò
sopra di me con una piccola luna sotto il ventre.
Gli aranci gettavano sulle spalle il golfino azzurro della
sera
e andavano all’appuntamento con gli olivi.
Sulla città si stendeva una nebbia di luce,
un
evaporare bianco di sogni e comignoli.
Laggiù lontano si
sentiva il rombo di un fiume
che versava il tempo nel mare.
Stavo solo con l’Universo.
INVIDIA
Sono colto dall’invidia quando penso
che una sola radice
d’olivo
può
superare la mia utilità,
quando un
fiore con le sue luci e le sue linee
supera le mie
poesie,
quando
un’ape ritorna dal pascolo carica di nettare
ed io
chiedo conto a me stesso alla fine d’ogni giorno,
quando un astro segna esattamente la sua via
ed a me occorre molta fatica per trovarla.
Ogni volta che
penso a tutto ciò
cerco
di avere entro di me
un olivo,
un fiore,
un’ape
e
una stella.
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