Cosimo Rodia
Un
elegante poeta civile: AGIM MATO
in Fuori dall' eclisse
Fuori dall'eclisse è una
silloge poetica di Agim Mato; dopo il silenzio impostogli dal regime comunista
albanese, dopo le privazioni fisiche e materiali subite, dopo una iniziale
sfiducia nella letteratura, ecco che emerge dall’abisso della coscienza del
poeta di Saranda questa raccolta tutta innervata nella sua biografia.
Nella raccolta sono affrontati diversi temi: dalla
solitudine per un futuro caino («non viene nessuno/come un tempo a portare
l’acitilene», per cui rimane con la «lampada spenta»); agli aneliti di libertà
consegnati in bottiglia; dal regime illiberale che cambia i connotati anche
all’amore (in “Afrodite” il poeta scrive: «E vedemmo i pescatori
trasportare il tuo corpo/avvolto in una vela/come trasportassero il trinchetto
rotto/delle nostre speranze»); alla libertà raggiunta che sembra, dopo tanto
deserto, un miraggio («Invecchiati ed incanutiti/saremmo giunti noi davanti a
te/con labbra sigillate e storditi/perché non riuscivamo più a capire/ se eri
Tu o forse i miraggi/che apparivano a noi per stanchezza/su un cumulo di anni
perduti»); al domandare a Dio dove si fosse nascosto quando la violenza del
regime, tra le tante aberrazioni, «faceva appassire la bellezza di mia madre
nella fattoria dell’allevamento di porci».
Non mancano quadri in cui Agim ricorda: i figli d’Albania
fuggire verso l’Italia dopo la caduta del comunismo; la trasformazione
urbanistica di Saranda, nel cui cambiamento si cancellano le vecchie vie, che a
stento permangono nella memoria; il richiamo alle leggende albanesi (spicca
quella del “Drago dell’occhio azzurro”).
Così, quando il regime credeva di aver soffocato la voce
poetica, in realtà l’aveva solo ibernata perché sarebbe riemersa con tutta la
sua forza quando i tempi sarebbero stati maturi per fare i conti anche con la
storia; il poeta di Saranda, infatti, raccoglie i suoi arnesi di lavoro
«sparpagliati senza la minima cura in istanti d’ira contro gli dei» e torna a
cantare, vincendo la ritrosia dettata da «queste ossa calcificate dagli anni,
dall’attesa e dai borbottii dei censori d’un tempo».
Una poesia impastata inevitabilmente con le passioni
inibite e col passato dittatoriale. Il poeta albanese non piega la testa, non
“canta ditirambi” per ingraziarsi il tiranno, la sua è una voce, che pur
ridotta temporaneamente al silenzio, ritorna ad essere sonora non appena si
apre una nuova era. Evidentemente i regimi sono così insipienti da non capire
che possono costringere a marciare, ad allinearsi, a sparare, ma non a chiudere
il cuore e la capacità umana di riflettere sulla realtà.
Ritornata la libertà, Agim si ributta nella vita e
presenta con la sua commozione, con i suoi sogni violati, con le sue attese…
quelle di un intero popolo che si è visto profanare le sue forme più elementari
di vita.
In Agim c’è il desiderio di girar pagina ma senza
dimenticare, senza che tanta violenza sia obliata e lo fa senza alzare
l’indice, con garbo, con eleganza: le liriche di Agim sono un consuntivo di chi
si porta con sé sogni e amarezze da cui le nuove generazioni possono trarre non
pochi auspici.
La testimonianza di Agim sia nella sua versione
letteraria sia in quella umana e biografica è un invito forte a proteggere
l’uomo dalla sofferenza con ogni mezzo, e la letteratura essere strumento non
secondario, una forza operante nella società per produrre una cultura
liberatrice. Agim non è Sartre che teorizzava l’engagement
dell’intellettuale, ma il poeta albanese gli corre a fianco nella misura in cui
esprime un dolore attraverso il quale l’uomo può riscattare un periodo buio,
può guardare negli occhi la tragedia per superarla: un modo formidabile,
insomma, di fare i conti col passato e chiuderlo definitivamente.
Nella denuncia delle miserie personali vi è l’emblema di
un popolo offeso, di quel dolore assorbito negli anni da tutti in egual misura;
il suo canto impastato di esperienze autobiografiche non può non essere lo
specchio di tutto il popolo albanese.
Quella di Agim infine è una poesia allegorica, dal costante
correlativo oggettivo, dagli accostamenti eccezionali (In “Anima vuota” si
legge: «Anima vuota./Alla fine dei giorni/resta un fondaglio di caffè/e di
crepuscoli amari»; o ancora in “Prima visione”: «I venti come migliaia di
violini squarciati dalla mia ira cinguettano negli spazi»).
Possiamo dire che l’immagine diventa la depositaria
dell’idea; ovvero, dall’immagine si ingenera l’idea, il sentimento, l’emozione,
il patimento, la gioia desiderata.
Dunque, è una poesia ricca, che col registro ordinario
Agim Mato crea immagini luminose, concrete, contingenti, storiche.